Matteo Spiazzi porta potenti pareidolìe sul palcoscenico del Teatro Stabile di Venezia

Il termine “pareidolìa” risulta composto dal suffisso greco “parà” (intorno) e dalla radice, sempre del greco antico, del verbo vedere (eidèin) da cui anche il latino “videor“, e anche le parole italiane “vedere” e “idolo”. In sostanza le pareidolìe sono quindi qualcosa che è inerente alla vista.

Ma cos’è la visione? non si può dire altro, se non che si tratti di qualcosa di strettamente individuale e soggettivo, come ogni altra percezione derivante dai sensi ed elaborata dalla coscienza, le cui proprietà assumono un significato psicologico personalissimo e pressoché incomunicabile.

Inutile obbiettare che, se c’è una linea dritta tutti oggettivamente vedranno una linea dritta, perché qui si sta parlando non della linea, ma dell’incontrovertibilmente diverso effetto psicologico-percettivo che la visione di quella linea produce in ciascuna persona che stia vedendo tale linea. E’ l’effetto della percezione della cosa in ciascun diverso soggetto, appunto, che in psicologia viene chiamato, con il termine latino neutro “quale“, che significa “una certa qual cosa” (al plurale “qualia“).

Il regista Matteo Spiazzi (foto Scienzaveneto)

Si potrebbe allora dire che le pareidolie siano dei qualia al quadrato: esse non sono le cose, ma la rappresentazione casuale che la mente umana estrapola da qualcosa che la cosa non è, per ricondurla a cose note e familiari. Così una nuvola potrà diventare un elefante, o la parte anteriore di un’auto, una faccia con tanto di occhi e naso. Ma siccome nemmeno i ritratti dipinti da un pittore iperrealista, o una foto sono la persona che rappresentano, anche questi saranno delle pareidolie… anche se il loro rimando al reale è talmente forte da mescolarsi profondamente nella coscienza di chi guarda con la realtà medesima.

Infatti l’effetto che si muove nella coscienza dello spettatore, in questi casi prodotto non dall’originale, ma da qualcosa che viene semplicisticamente chiamata “copia” dell’originale, scaturisce un effetto analogo a quello che sortirebbe dall’originale, ma, nondimeno si compone anche con l’effetto che il supporto “quadro” o “foto”, e la realizzazione stessa dell’immagine (per esempio stile del quadro) sortiscono di per sé, pur non avendo nulla a che fare con il soggetto rappresentato (e qui non possiamo fare a meno di cogliere la corrispondenza tra il termine immagine e immaginazione…).

Ma proviamo ora a elevare il termine al cubo. Il lettore potrà divertirsi a farlo da sé: gli basterà andare in cucina a prendere qualche stoviglia, e assemblarla in modo tale da richiamare all’immaginazione un volto umano (in questo caso saranno più oggetti tridimensionali a ritrovarsi in un campo spaziale, dai quali si potrà estrapolare una pareidolistica percezione unitaria): ne sortirà certamente qualcosa tra il grottesco e il buffo…

(foto Scienzaveneto)

Ma come fa il nostro cervello a “vedere” (le virgolette sono d’obbligo) qualcosa che ricorda tanto efficacemente volti umani a partire da quattro stoviglie appoggiate su un tavolo? La risposta non è affatto semplice, e perfino le moderne neuroscienze non sono in grado di spiegare tale fenomeno fino in fondo.

Infatti, se la corteccia visiva possiede una grande facoltà di integrazione formale, una parte molto consistente del lavoro necessario alla formazione dei qualia, che quei quattro oggetti situati in un’area ristretta del tavolo producono nella nostra coscienza percettiva, è affidata alla nostra immaginazione. Per esplorare interamente il fenomeno della visione sarà allora necessario entrare anche nel campo della memoria, della psicologia e della fenomenologia, al fine di formulare opportune ipotesi.

Ma in questo articolo ci si vuole solamente occupare di una pièce teatrale, che, ha saputo sfruttare i meccanismi cognitivi della psiche umana, per ottenere effetti poetici interessanti mediante dei colapasta, delle grattugie a manovella, delle pentole, dei coperchi, dei mestoli, degli schiacciapatate, delle forchette, e un guanto d’arme.

(foto Scienzaveneto)

Una favola per bambini? Nient’affatto, anche se, si può dire una rappresentazione perfettamente fruibile da bambini che, verso la terza infanzia, abbiano già raggiunto una buone capacità d’integrazione visiva e cognitiva (la maturazione del cervello umano è un processo che iniziando alla nascita, si completa progressivamente solo verso i 23-24 anni).

Infatti lo spettacolo diretto da Matteo Spiazzi, ha portato sul palcoscenico del Teatro Momo di Mestre la fiaba “L’augellino belverde” di Carlo Gozzi, interpretata da marionette, ma soprattutto da stoviglie animate dagli attori della Compagnia Giovani del Teatro Stabile di Venezia e da tre artisti ucraini, che le fanno volteggiare per l’aria, dando loro incredibili sembianze antropomorfe in bilico tra disgregazione e riaggregazione tra gli oggetti stessi e i corpi degli attori, che talora prestano alcune delle loro membra per integrarli (si potrebbe dire a questo punto qualia elevati almeno alla quarta potenza…).

“E’ una modalità abbastanza consueta nell’Est Europa – rivela a Scienzaveneto Matteo Spiazzi, regista e pedagogo che ha dato vita al progetto “Stage for Ukraine” -: proprio il 14 febbraio di quest’anno, al momento dell’invasione da parte della Russia, mi trovavo in Ucraina per una collaborazione col Teatro stabile di Kiev… e pur dovendo organizzare rapidamente il rientro in patria, ho proposto anche a tre attori ucraini di seguirmi a Venezia”.

(foto Scienzaveneto)

Lo spettacolo si basa su un mix di differenti tecniche di teatro, dove burattini giocano il ruolo di personaggi senza maschera, mentre gli accessori di cucina interpretano i protagonisti mascherati: Pantalone una vecchia caffettiera, Truffaldino una grattugia a manovella, Re Tartaglia ha un tremolante guanto d’armatura al posto della bocca (che lascia immaginare un isterico movimento della lingua tra una dentatura sgangherata), uno schiacciapatate come occhi e uno scolapasta per corona.
Insomma, una commistione di linguaggi che, evocando la favola accende la fantasia mediante un potente massaggio neuroestetico. Gli spettatori grandi e piccoli, come quando hanno ascoltato per la prima volta una fiaba, hanno veramente la sensazione che quel mondo incredibile e fantastico sia reale.

(foto Scienzaveneto)

Narrando le fiabe genitori e nonni diventano inconsapevoli attori. Raccontano di luoghi fantastici e spesso non realistici, ma aiutano a comprendere il mondo. Nel gioco i bambini si trasformano in piccoli eroi, vedono draghi, usano bacchette magiche, affrontano avventure incredibili; oppure fanno vivere magiche storie a bambole o giocattoli, ed è dall’unione di queste suggestioni che è nato lo spettacolo.

L’iniziativa fa parte del Protocollo d’Intesa tra Regione Veneto, Teatro Stabile del Veneto e Accademia Teatrale Veneta per la realizzazione di un’edizione transitoria del progetto Modello Te.S.eO. Veneto – Teatro Scuola e Occupazione –, di Meredith Airò Farulla, Riccardo Bucci, Davide Falbo, Chiara Pellegrin, Emilia Piz, Gregorio Righetti, Andrea Sadocco, Daniele Tessaro e Sofiia Lys, i quali hanno evocato la storia e dato vita ai personaggi che la abitano.

Note di regia
Nella Venezia settecentesca dominata dal realismo goldoniano, Carlo Gozzi si affida alla “fiaba di magia”, scrivendo “L’augellino belverde”. Intuendone la potenzialità drammaturgica, invece di insistere sul nesso maschere-parodia, l’autore scommette sull’effetto spettacolo, sulla rappresentabilità del meraviglioso fiabesco, sulle ambientazioni esotiche, sul fascino che esse possono produrre, senza trascurare una satira piccante dei suoi contemporanei. Particolarmente amato dai romantici, che delle Fiabe apprezzavano in particolare gli elementi magici e fantastici, Gozzi ha ridato nuova e originale vita alla commedia dell’arte. Il progetto curato da Matteo Spiazzi prende spunto dal celebre testo di Gozzi per rielaborare una drammaturgia originale che integri e arricchisca la linea narrativa con elementi legati al teatro di figura e al linguaggio delle maschere. In scena prenderà vita una commistione di linguaggi differenti, da quello fisico-gestuale, al teatro degli oggetti, passando attraverso l’utilizzo di maschere antropomorfe create appositamente per lo spettacolo, tale da evocare il magico e il fantastico che caratterizza la fiaba di Gozzi.

Ospite dello spettacolo anche la regista Gloriana Ferlini, che al termine si intrattiene con alcuni allievi (foto Scienzaveneto)

La fiaba dell’augellino belverde scritta originariamente per personaggi con maschere e senza, nella nostra versione, volutamente non filologica, vede una riscrittura per diverse tecniche di teatro di figura. Il testo è rimaneggiato e in parte riscritto, per essere interamente godibile dal pubblico, garantendone così la comprensione anche agli spettatori più giovani. Vorremmo però ancora ricordare che il teatro degli oggetti, e in generale il teatro di figura, non è destinato esclusivamente a un pubblico di ragazzi; ma anzi, forse proprio come la commedia dell’arte con la sua capacità comunicativa universale, è in grado di destare l’interesse di tutte le fasce di pubblico.
La rappresentazione è un gioco raffinato che fa leva su quella capacità di astrazione che i bambini ben conoscono; come quando impugnando un semplice bastoncino si trasformano in cavalieri con la spada. Il teatro degli oggetti permette di creare personaggi fantastici con potenzialità espressive a cui nessun attore potrebbe mai arrivare, e porta lo spettatore ad avere un altro sguardo, uno sguardo attivo.

Matteo Spiazzi è regista e pedagogo teatrale. Dopo essersi diplomato presso l’Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe” di Udine, si specializza nella commedia dell’arte, nella maschera contemporanea, nel teatro di figura con particolare attenzione all’object-theatre e nel teatro fisico. È autore e regista di diversi spettacoli entrati nel repertorio di diversi teatri internazionali, tra cui il Alytus Miestas Teatras (LT), Maribor Puppet Theatre (SLO), Kuressare Linnateater (EST), Slupsk Puppet theatre (PL), Teatro delle Nazioni di Mosca (RU), il Teatro accademico Drami e Comedi di Kyiv (UA), il Teatro Nazionale Accademico del’Operetta di Kyiv (UA) Teatro Nazionale Accademico Russo “Gorkij” di Minsk (BLS) State Puppet Theatre di Minsk (BLS). Collabora come pedagogo presso diverse accademie d’arte drammatica e università, tra cui Accademia “Nico Pepe” di Udine, Accademia d’Arte Drammatica di Viljandi Tartu University (EST), Accademia d’Arte Drammatica di Praga DAMU (CZ), Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Minsk (BLS), Accademia d’Arte Drammatica Karpenko Kary di Kyiv (UA) e molte altre.


Attrici e attori della Compagnia Giovani del Teatro Stabile del Veneto
Meredith Airò Farulla, Riccardo Bucci, Davide Falbo, Chiara Pellegrin, Emilia Piz, Gregorio Righetti, Andrea Sadocco, Daniele Tessaro

e con Sofiia Lys

L’immagine in apertura è di Serena Pea


Riccardo Panigada

Direttore responsabile:

Negli anni '80, mentre è ricercatore nel campo della bioingegneria, pone le basi per la teoria dell'Onfene (Manzotti-Tagliasco), e collabora a diverse testate tra cui «Il Sole 24 Ore», «Il Corriere Medico», «Brain», «Watt». È giornalista professionista, membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis), e la sua originalità è quella di filtrare la divulgazione scientifica attraverso la riflessione epistemologica. E' inoltre docente di Filosofia e Scienze Umane nei licei.

Ha pubblicato: Il percorso dei sensi e la storia dell’arte (Swan, 2012); Le neuroscienze all'origine delle scienze umane (Cleup, 2016).

Attualmente sta lavorando a un nuovo saggio in tema di Psicologia cognitiva alla luce delle neuroscienze.

Dirige anche Tempo e Arte (tempoearte.it).