Parli da solo per strada? sei da rinchiudere.

Lo scenario si è ormai ubiquitariamente consolidato. Basta uscire per strada e quasi tutte le persone che si incontreranno saranno concentrate sul loro cellulare con l’espressione di quelli che stanno facendo qualcosa di vitale e improcrastinabile importanza. Sull’autobus o in treno tutti. La socialità (e ancor più la socializzazione) offline è morta.

Si vive quindi una realtà distopica, in cui tutto viene filtrato, banalizzato, strumentalizzato, dalle orecchie e da tutti gli altri tecnologici sensi del “piccolo-grande fratello” che teniamo in tasca. Lo consideriamo sacro, tanto che volentieri affidiamo a “lui” ogni nostro segreto. Zygmunt Bauman, in una sua famosa conferenza sulla felicità, ha rivelato perché in una società in cui si diventi totalmente indipendenti dall’altrui presenza, non si possa essere autenticamente felici. Il Grande di Stagira (Aristotele), già nel terzo secolo a.e.v., rivelò agli uomini le fondamentali caratteristiche (oggi possiamo dire neurobiologiche) della loro natura intrinsecamente sociale. Ma, la tecnologia, dandoci la tentacolare illusione di metterci in contatto con il mondo intero, alla fine dei conti ci ha isolato ancor più dal nostro vicino di casa, di quanto non abbia saputo fare la più geniale architettura della moderna urbanistica grazie a cui la porta dell’ascensore si apre dando accesso diretto al salotto del nostro appartamento.

Eppure resta in circolazione qualche anima pura, qualcuno che, disorientato dall’angosciante isolamento dal mondo reale, magari va per la sua strada, e parla senza esporre virgolette di plastica nei propri padiglioni auricolari, ma conversa candidamente con la propria interiorità, o con qualche persona immaginaria… Tale persona immaginaria, però, magicamente lo ascolta, c’è, ci sarà sempre, ed è sempre pronta a rispondergli nel contesto di una dimensione psichica autologa, ma più autentica di quella che potrebbe fornire un “amico Facebook a rischio di svanire nel nulla in men che non si dica” come un avatar…

Ma se qualche passante avvezzo a schierarsi – perché senza schierarsi non si può ormai essere riconoscibili, ovvero non si ha “identità” (e l’unica identià riconosciuta è quella di appartenenza, e non quella individuale) – incrocia la nostra “anima candida”, alla vista del “diverso”, cogliendo al volo l’opportunità di affermare la propria “normalità”, scuote la testa e dice: “bisognerebbe rinchiuderlo”. Ma soprattutto lo posta su fb.

Dall’articolo di Oliviero Fuzzi, vicepresidente della Società italiana di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (Sinpia), che pubblichiamo a lato, risulta ormai evidente quanto la realtà contemporanea stia producendo sempre più anime sofferenti (spesso quelle che proprio non riescono a negoziare/storpiare nulla della loro autentica natura sociale), e quanto sia oggi più che mai necessario potenziare i servizi di cura che le possano supportare in modo almeno un po’ più adeguato. Ma bisogna anche anche implementare campagne di comunicazione, e concreti programmi di reinserimento sociale che consentano a chi spesso ha un’anima maggiormente pura e fragile di molti altri di venire adeguatamente rispettato e accolto in seno alla società.

Riccardo Panigada

Direttore responsabile:

Negli anni '80, mentre è ricercatore nel campo della bioingegneria, pone le basi per la teoria dell'Onfene (Manzotti-Tagliasco), e collabora a diverse testate tra cui «Il Sole 24 Ore», «Il Corriere Medico», «Brain», «Watt». È giornalista professionista, membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis), e la sua originalità è quella di filtrare la divulgazione scientifica attraverso la riflessione epistemologica. E' inoltre docente di Filosofia e Scienze Umane nei licei.

Ha pubblicato: Il percorso dei sensi e la storia dell’arte (Swan, 2012); Le neuroscienze all'origine delle scienze umane (Cleup, 2016).

Attualmente sta lavorando a un nuovo saggio in tema di Psicologia cognitiva alla luce delle neuroscienze.

Dirige anche Tempo e Arte (tempoearte.it).