L’audacia di Concetta
Noale, 11 maggio 2024 ore 17: inaugurazione della personale di Concetta de’ Paquale
Come ha ben rilevato dal filosofo Umberto Galimberti, la grandezza degli antichi Greci, è stata determinata (caso unico tra le antiche civiltà) dall’aver saputo “guardare negli occhi il dolore più profondo” esprimendolo nelle tragedie, in luogo di tentare di negarlo rifuggendolo. Il dolore è infatti intrinseco, e quindi compagno inesorabile dell’umana esistenza, “del destino dei mortali”, direbbero gli Achei, e, in quanto tale va esplorato, se si vuole inquisire a fondo la psiche, per ottenere una lettura autentica, e da questa lettura ostica e problematica far scaturire conoscenza filosofica. E’ in questo senso che va inteso il detto “pathei mathos”, che significa: la conoscenza, la saggezza hanno origine dalla sofferenza…
Ma altri termini di riferimento fondamentali della civiltà greca sono i termini “nostos” (viaggio), e nost-algia (dolore del ritorno). Ecco che si comprende allora che la nostalgia si prova quando qualcosa di di fondamentale importanza (talora inesorabilmente) è andato perduto, pur continuando in un certo senso a vivere dentro a noi nel ricordo (e vale qui la pena di notare l’origine etimologica del termine “ricordo” dal latino cor-cordis, cuore), ma fino a poter essere avvertito come realmente attuale e indelebile parte intima della nostra identità.
Ecco che allora si può meglio comprendere il culto dei “sacri lari”, quelle situle appoggiate sul focolare, nel luogo più intimo delle case greche e romane, contenenti le ceneri degli avi. Quelle ceneri, residui materici di esistenze ingoiate dal trascorrere del tempo, ma non spiritualmente estinte, finché possano foscolianamente continuare nel ricordo di qualche discendente che ne voglia perpetrare il valore nella propria esistenza e nelle proprie azioni.
Ma gli Antenati erano anche qualcosa di più, erano divinità, quelle sentite maggiormente care e prossime, incluse a pieno titolo nel culto pagano, che, mediante Pan, Demetra, Persefone e Proserpina poneva in stretta connessione morte vita e natura tutta, dando a Freud l’opportunità di diventare padre della psicanalisi.
Così è proprio da storie personali, che spesso i letterati traggono ispirazione per i loro racconti poiché solo da queste possono ottenere occasione di “interamente comprendere e fortemente sentire”, mediante la nobiltà d’animo che li caratterizza, e dona loro l’opportunità di rendere universali, ovvero da tutti fruibili e apprezzabili i contenuti delle loro opere. Contenuti che solo apparentemente sono limitati a una dimensione famigliare, ma che, attraverso l’arte si trasformano a pieno titolo in patrimonio dell’Umanità.
Ed è nello Zibaldone che Leopardi esprime tali concetti, rilevando che “la grandezza e la potenza dell’umano intelletto […] e l’altezza e la nobiltà dell’uomo” consiste nell'”interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza […] considerando la pluralità dei mondi”, e pur in tale smarrimento può “pervenire a conoscere e intendere cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza delle cose”.
Ecco allora che Concetta de’ Pasquale entra straordinariamente nella poetica dell’umanità
che riscontra nella profondeur della propria sensibilità artistica attraverso l’epopea genealogica di una nobile famiglia, la sua, l’occasione di produrre opere che scaturiscono da percezioni e intuizioni intime, basate sulla riscoperta iconografica e iconologica di reperti e documenti degli avi, la cui linfa vitale sente scorrere ancora prepotentemente all’interno delle camere del suo cuore. Ne scaturisce una connessione stretta tra realtà attuale individuale ed esistenze ctonie, in perfetta simbiosi panistica con il viaggio, il mare, la natura.
In tale fenomeno sono implicati i neuroni specchio, con il loro imprinting parentale e ambientale, spiegherebbe la moderna neurofisiologia, che recentemente si siede di diritto al tavolo della più attuale ricerca umanistico-filosofica, a creare quella risonanza spirituale e creativa tra ciò che non esiste più e la realtà odierna. Risonanza la quale può essere avvertita con piena efficacia solo da chi è situato nella dimensione dell’assoluta autenticità.
Il risultato è allora una epifania fatta della materia che si trasfigura attraverso il gesto dell’artista, prodigio che nemmeno lei può spiegare, in quanto catalizzato da intuizioni recondite che non sarebbe possibile definire, se non ricorrendo alla metempsicosi platonica dell’anima.
Concetta, insomma, ha avuto l’ardire di inquisire le proprie radici originarie, facendo proprio anche il dolore di molti suoi cari scomparsi, anche di quelli che non ha potuto conoscere, per riconoscersi e comunicarsi attraverso l’arte, perché senza l’opportunità di comunicare non può esservi società, e senza l’arte non può esservi civiltà.
E, se Artista è chi avverte l’urgenza creativa di produrre opere d’arte, è anche chi sente dentro a sé la forza di poter affrontare percorsi difficili e apparentemente imperscrutabili, conformemente alla lezione di Eraclito, secondo la quale “Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada”.