IL PRIMATO DELL’OZIO

Bisogna ormai inesorabilmente prendere atto che l’attività maggiormente produttiva sia l’ozio. Stiamo ovviamente parlando del sistema nervoso centrale dell’uomo, ossia il cervello, in cui (le più recenti rilevanze delle neuroscienze lo dimostrano) la maggior parte delle sinapsi avvengono quando il cervello è “a riposo”, ovvero in quei momenti in cui il soggetto pensante, non sta ponendo limiti alla spontanea fisiologia endocranica.

In sostanza, la cosa peggiore che si può fare, quando si è di fronte a una problematica cruciale, è quella di costringere la neocorteccia cerebrale a concentrarsi solo sullo specifico compito di cercare la soluzione solo mediante gli strumenti coscienti in quel momento disponibili al cervello, sequestrando così ogni eventuale altra opportunità di contatto con altri “scenari mentali”, non solo potenzialmente proficui, ma spesso perfino risolutori del problema che si vorrebbe risolvere…

Infatti, basti pensare a come i sogni abbiano il potere di proporsi alla nostra mente con caratteristiche di novità spesso sorprendenti e inusitate, per comprendere quale facoltà abbia il cervello di generare scenari improbabili ma interessanti, solo quando la mente viene lasciata libera di vagare.

A prescindere da qualsiasi eventuale cognizione di matrice psicanalitica, si vuole qui trattare il tema della libera meditazione in senso più ampio, cioè notando quanto la saggezza della cultura classica, molti secoli prima dell’avvento di tecniche ultramoderne in grado di esplorare a fondo la neurofisiologia dell’ultrastruttura cerebrale (quali la risonanza magnetica funzionale e l’optogenetica), la cultura classica abbia saputo sfruttare l’ozio (otium in latino, scholé, in greco antico, significava ben altro che “perdita di tempo”) per fondare le basi filosofiche, scientifiche ed estetiche della cultura occidentale.

Paradossalmente l’odierna civiltà tecnologica ha fondato il merito da attribuirsi al lavoro umano di un dipendente prevalentemente sulle capacità esecutive di compiti specifici, da misurare in termini di una “efficienza esecutiva operante su una base di dati nota”, da gestire ottimizzando il più possibile i tempi.

Si può dire pertanto che anche molti lavori, fino a pochi lustri addietro considerati “intellettuali” oggi vengono svolti con il “supporto” dell’informatica e di quella cosiddetta “intelligenza artificiale”, che, più che essere al servizio del cervello umano, si pretende che ne prenda il posto.

Ultimamente pare che un imprenditore sia rimasto favorevolmente colpito dal fatto che un algoritmo capace di sondare le attività online dei propri impiegati (inclusi i post inseriti sulle piattaforme social), abbia suggerito il licenziamento di un dipendente da lui invece giudicato un ottimo collaboratore, poiché tale algoritmo, a supporto delle decisioni dell’ufficio “risorse umane” avrebbe rivelato che quell’impiegato sarebbe stato affetto da una certa forma di depressione.

L’esistenza di tali “sistemi automatici a supporto delle decisioni” è allora molto preoccupante, non solo per quanto possano essere eticamente discutibili (e certamente lo sono!) ma quanto possano essere anche fuorvianti. Infatti, solo limitandoci a prendere il considerazione la fatttispecie descritta, si nota immediatamente che l’algoritmo giudicante è impostato in base a alla “filosofia dell’efficienza della personalità vincente”, tanto cara al pragmatismo nordamericano. Impostazione relativamente utile se si stia prendendo in considerazione la previsione di successo di un venditore, ma totalmente sbagliata e controproducente in qualsiasi altro caso. Infatti è ampiamente dimostrato che, mentre la figura del “vincente” è spesso anche inaffidabile sotto molti rispetti, sono invece proprio le persone maggiormente pessimiste (e potenzialmente depresse in quanto rassegnate), che, al contrario sono maggiormente riflessive, affidabili e disponibili a svolgere il proprio lavoro con meticolosità e perfezionismo a causa anche di “sensi di colpa” derivanti dal non sentirsi adeguati alla realtà.

Ma per tornare al “Primato dell’ozio”, pur senza affrontare la problematica nei dettagli scientifici che l’odierna neurobiologia consente (e per la quale rimandiamo ad altre opere*), basti considerare quanto possa apparire paradossale, che rispetto a ciò che le sensazioni corporee suggeriscono per orientare ogni individuo al benessere, sia così difficile esserne coscienti, mentre, soprattutto nella società contemporanea, sia così facile farsi irretire da smanie, ossessioni, attacchi di panico, ira, sindromi maniaco-depressive.

E’ infatti grazie a facoltà prettamente intuitive ma basate sulla sensibilità, che quella ristretta parte della popolazione rappresentata dagli artisti, il cui lavoro è immediatamente quanto quasi esclusivamente mediato dall’estetica, nelle diverse epoche storiche dell’Umanità, ha cercato di ritirarsi quanto più possibile in un eremo a pieno contatto con la natura, che potesse favorire il prodigio di introiettare in sé il milieu esterno, ai fini di restituirlo arricchito della propria peculiare interpretazione lirica, in una poesia, o in qualsiasi altra forma d’arte.

Ma ricordando che l’etimologia della parola estetica deriva dal tema lessicale del greco antico àisthesis (= sensazione, percezione), e che i sensi umani sono cinque, va da sé che attivandone insieme almeno un paio, si ottengano, in sinestesia, effetti amplificati, ovvero quelli cui anela ogni artista, al fine di esprimere quel superamento degli umani limiti che prepotentemente sente dentro di sé, e che solo mediante l’arte si può raggiungere.

Si pensi per esempio ai versi dell’infinito di Leopardi:

allora viene perfino quasi da chiedersi se sia merito delle sinestesie tra percezioni e pensiero o se gli artisti possano godere forse di un atavico “canale di contatto” tra la loro mente e la natura, dalla quale gli uomini come tutti gli altri esseri viventi sono emersi in seguito a particolari organizzazioni di quegli atomi a loro volta generati dalle fusioni nucleari in seno alle stelle.

Si dovrebbe allora forse poter parlare di una sorta di isomorfismo, di cui gli stessi artisti spesso sono stupefatti, sembrando loro che gli stessi movimenti dei loro pennelli siano guidati da forze esterne…?

Ma vediamo cosa si può fare per cercare di entrare nel loro operare aderendo il più possibile alla loro dimensione creativa.

Una proposta straordinaria arriva dal programma delle conferenze di Annick Polin: laureata in Lettere classiche e abilitata in Storia dell’Arte, già responsabile del dipartimento didattico del Museo di Belle Arti di Caen, si distingue oggi con un suo taglio interdisciplinare molto interessante mediate cicli di conferenze, “Parcours Croisés“, in cui letteratura e pittura, estratti musicali e cinematografia, riecheggiandosi a vicenda, offrono, sia al grande pubblico che a quello più documentato, tanto informazioni inedite quanto notevoli emozioni estetiche.

La Polin si è inoltre ispirata alle lezioni di Proust alla Villa du retrouvé di Cabourg sviluppando, per i viaggi musicali di Marcel Proust a Cabourg nel 2018 e per l’Università di Caen nel 2020 e nel 2022, la forma del concerto pittorico e letterario.

Recentemente Annick Polin chiamata dall’Alliance Française di Venezia ha tenuto una conferenza dal titolo: Parcours croisé entre Littérature et Peinture: les peintres de Barbizon, in cui ha accostato passi del libro dei fratelli Goncourt “Manette Salomon” ai quadri di diversi artisti che nella prima metà dell’Ottocento convergevano nel villaggio di Barbizon per produrre en pleine aire le loro opere, grazie alla selvaggia quanto quasi soprannaturale ispirazione garantita dalla foresta di Fontainebleu.

Chi ha assistito alla conferenza, densa di vera cultura umana ed estetica quanto priva di commenti stilistici scolastici ed esibizionismi eruditi, ha potuto avvertire la sensazione di vivere dentro quelle immagini in un processo di identificazione con gli stessi artisti di Barbizon, i quali erano alla ricerca della massima espressione dell’autenticità della natura, in sintonia con la peculiarità della loro vena creativa.

Le parole della Polin insieme a quelle dei fratelli Goncourt sono quindi riuscite a produrre unitamente alle opere proiettate, pur in una sala conferenze tanto diversa da un ambiente naturale, effetti sinestesici ed emozioni veramente notevoli.

La strada per avvicinare il pubblico all’arte non può essere quella dei tecnicismi o dei nozionismi biografici di critici o di storici dell’arte malati di accademia, ma quella di chi sa entrare nella pelle degli artisti, e trovare parole corrispondenti al loro sentire, e saper far arrivare a molti altri nel modo maggiormente autentico e coinvolgente quel particolarissimo sentire, unica opzione possibile per “capire” l’arte, e salvaguardare la cognizione della differenza tra intelligenza naturale biologica e “intelligenza artificiale elettronica”.

Nella galleria di immagini qui sotto: Ozi letterari nell’Antica Roma (affresco di una villa di Pompei); Un artista a Barbizon con il suo equipaggiamento di lavoro; Slides della conferenza di Annick Polin, corredate da passi del libro dei fratelli Goncourt gentilmente concesse dall’Autrice; Il quadro di Van Gogh “Il ritratto del dr. Gachet” con i libri “Manette Salomon” e “Germinie Laceteux”. Tali due opere dei fratelli Goncourt non sono state scelte a caso. La prima riguarda il mondo dei pittori, la seconda un caso patologico che si evolve in maniera fatale, e i narratori adottano un punto di vista “medico”, conformemente all’estetica realista. È una chiara indicazione degli interessi estetici del dottor Gachet: un voler evidenziare (forse dietro sua richiesta) i suoi autori preferiti. Gli indizi affettivi del volto sono così completati dagli esempi o dagli emblemi delle attività intellettuali del personaggio: la scienza (l’arte di guarire) e le belle arti (ultima nota a cura del prof. Marco Marinacci).

* Si vedano le seguenti opere:

  • Henri Laborit, Éloge de la fuite;
  • Alain Berthoz, La Vicariance – Le cerveau créateur de mondes;
  • Robert Sapolsky, Why Zebras Don’t Get Ulcers.

Riccardo Panigada

Direttore responsabile:

Negli anni '80, mentre è ricercatore nel campo della bioingegneria, pone le basi per la teoria dell'Onfene (Manzotti-Tagliasco), e collabora a diverse testate tra cui «Il Sole 24 Ore», «Il Corriere Medico», «Brain», «Watt». È giornalista professionista, membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis), e la sua originalità è quella di filtrare la divulgazione scientifica attraverso la riflessione epistemologica. E' inoltre docente di Filosofia e Scienze Umane nei licei.

Ha pubblicato: Il percorso dei sensi e la storia dell’arte (Swan, 2012); Le neuroscienze all'origine delle scienze umane (Cleup, 2016).

Attualmente sta lavorando a un nuovo saggio in tema di Psicologia cognitiva alla luce delle neuroscienze.

Dirige anche Tempo e Arte (tempoearte.it).