La “Difesa integrata” in agricoltura è legge da anni, ma resistenze culturali e scarsa diffusione delle conoscenze tecniche ne ostacolano l’applicazione, con gravi conseguenze per l’entomofauna e l’ambiente

Purtroppo, nella storia della lingua, accade che si perdano significati fondamentali da alcune espressioni originarie, con la conseguenza, certe volte anche grave, di far sorgere equivoci, correnti di pensiero, atteggiamenti nocivi all’ambiente e, ovviamente, all’uomo.
Infatti, in greco antico, l’associazione dei sostantivi téchne e areté significava indissolubilmente “arte/tecnica e eccellenza”. Poi, nel corso dei secoli, nella lingua italiana dalla parola areté sono separatamente derivati i termini “arte”, “artista”, “artigiano”; mentre dal termine téchne sono derivati i termini “tecnica”, “tecnologia”, “tecnologo”, “tecnologico”. È allora appena il caso di sottolineare come, con la scomposizione della locuzione iniziale, il secondo termine abbia salvato la componente idealistica, o, quantomeno creativa, intrinseca all’antico binomio, mentre, il primo termine, strettamente collegato ai risultati pratici della ricerca scientifica applicata, sia venuto ad acquisire un significato prettamente utilitaristico. Significato che, se inteso in senso riduzionistico e fideistico provoca gli effetti catastrofici che oggi sono sul nostro pianeta sotto gli occhi di tutti (a sola eccezione degli occhi dell’ormai immancabile popolo dei negazionisti seguaci di “bufale” e altre amenità).
Insomma, non bisogna invece dimenticarsi che la tecnica, essendo figlia della scienza, per continuare a essere areté non può avere paraocchi. Oggi, visti gli effetti che le moderne tecnologie possono avere su larga scala, non avere paraocchi significa non comportarsi con l’atteggiamento riduzionistico di chi, trovato il metodo per contrastare un problema (per esempio una patologia vegetale), lo applica indiscriminatamente, senza preoccuparsi di quali gravi effetti collaterali possano essere generati a breve e lunga scadenza dall’immediato nuovo rimedio.
Il contrario dell’aggettivo “riduzionistico” è “olistico”. Ma questo secondo aggettivo, sempre a causa della storia della lingua e del costume, provoca inevitabilmente nell’immaginario collettivo riferimenti a filosofie orientali, allo yoga, e a improbabili pratiche mediche.
Càpita infatti, che anche l’affermarsi di fatto nella società di movimenti spontanei che si autodefiniscano utilizzando una determinata terminologia, comporti una notevole deriva rispetto ai significati propri e originari delle parole. Anche “olistico” deriva infatti dal greco antico, in cui òlos significa semplicemente “tutto” nel senso di globale: ovvero tutto quanto è inserito in un certo sistema e vi resta in equilibrio.
Se è vero che le antiche discipline orientali hanno avuto il merito di intuire che gli organismi possono recuperare proficuamente un loro equilibrio perduto, solo rispettando il sistema globale, è vero anche che dal lògos (capacità logica) degli Antichi Greci, è nata la scienza moderna. Si può quindi ottenere una téchne (figlia della scienza moderna: tecno-logia) in grado di rispettare gli equilibri globali, ovvero ricordandosi correttamente il significato proprio e originario dei termini areté e òlos (da cui l’aggettivo “olistico”) da associare a téchne
In conclusione la figura che serve oggi si potrebbe dire che è quella del “tecnologo olistico”, ovvero dell’esperto di tecnologia, che sappia però ragionare con l’atteggiamento dello scienziato, tenendo conto di tutte le variabili, al fine di essere il più efficace ma meno invasivo possibile, sapendo usare modelli previsionali, che fanno largo uso della statistica, affidabili.
Prima di scendere quindi a trattare del non facile lavoro che oggi deve svolgere l’agricoltore tecnologico, dobbiamo però sgombrare il campo da un altro recente malinteso terminologico che recentemente ha conquistato gli onori della cronaca. Si tratta dell’aggettivo “biodinamico”.
È ormai di dominio comune, o quasi, che da poco si è tentato di far passare una legge per la concessione di finanziamenti all’”agricoltura biodinamica”. La paternità di tale definizione apparterrebbe a Rudolf Steiner, il filosofo austriaco fondatore dell’”antroposofia”, al quale si riconducono prevalentemente le note scuole steineriane, non prive di valore educativo per l’infanzia. Ma per quanto riguarda la biologia, Steiner aveva teorie quantomeno discutibili, che orientavano a pratiche degne di uno stregone primitivo.
Tuttavia, oggi, rigettando completamente (e ovviamente a ben ragione) le pratiche steineriane destinate all’agricoltura, non bisognerebbe essere costretti a rinunciare a un termine importante come l’aggettivo “biodinamico” che semplicemente si riferisce ai meccanismi della biochimica e della biologia in generale…
Bisogna infatti ricordare che quando si parla di prodotti derivati da “agricoltura biologica” si vuole sottolineare che quei prodotti sono stati ottenuti secondo pratiche solamente biologiche (o quasi), ma un’agricoltura che non sia biodinamica o biologica (bìos, sempre in greco, antico significa vita) dovrebbe produrre frutti con piante morte, dovrebbe quindi chiamarsi “necrologica”, e… resta ancora da scoprire.
Ma, per tornare al problema degli equilibri, e, anche in questo caso, dire come stanno seriamente le cose per quanto riguarda la biologia e gli ecosistemi, bisogna fare almeno un cenno al Nobel Ilya Prigogine per i suoi pionieristici studi sulla “termodinamica del non equilibrio nei sistemi complessi”, che hanno gettato un ponte tra la fisica, la chimica, l’ecologia e le scienze sociali, al fine di studiare tali settori non separatamente, ma come sistemi tra loro interagenti e quindi integrati.
In estrema sintesi: se le leggi che governano la materia inanimata mostrano che lo stato di disordine dei sistemi fisici (entropia) tende sempre spontaneamente ad aumentare, i sistemi biologici, (si prenda ad esempio un organismo vivente di un animale o di una pianta) almeno finché restano in vita, devono andare in controtendenza, ovvero devono conservare uno stato di ordine biodinamicamente organizzato, ovvero un buon equilibrio. La conservazione di tale ordine, siccome spontaneamente la materia tenderebbe al disordine, ovviamente ha un costo, e quindi anche per questo motivo gli organismi animali e vegetali devono alimentarsi per produrre l’energia necessaria a contrastare la tendenza al disordine.
Gli organismi viventi sono a loro volta inseriti in un contesto, chiamato “ecosistema”, a sua volta dotato di equilibri. Ma, su questi ultimi equilibri gli organismi viventi (vegetali, animali comunemente intesi e animale uomo) possono intervenire alterandoli in modo più o meno duraturo, o anche irreversibile, a seconda della pervasività degli interventi.
Se nel corso dell’evoluzione della biosfera gli equilibri naturali sono cambiati continuamente senza che le popolazioni se ne accorgessero (fatta eccezione per i grandi cataclismi, come quello che ha determinato 60 milioni di anni fa la scomparsa dei dinosauri), è perché la vita delle generazioni è estremamente breve in rapporto ai cicli delle trasformazioni ambientali.
Ma i sistemi tecnologici e i prodotti chimici potentissimi di oggi possono determinare cambiamenti dei sistemi naturali in tempi rapidissimi, e le attuali generazioni se ne stanno appunto ampiamente accorgendo.

Lorenzo Furlan
Lorenzo Furlan

Ne consegue che quello dell’agricoltore è stato e sta diventando sempre più, uno dei mestieri più difficili del mondo. Se da una parte la tecnologia consente di ottenere risultati prima non raggiungibili, e ricavi economici soddisfacenti, da un altro lato si impone la necessità di utilizzarla in modo sostenibile per l’ambiente. Ciò significa dovere fare calcoli previsionali che tengono conto di numerosissime variabili, e saper essere estremamente flessibili (si veda immagine in apertura).
Come in pratica si possa affrontare la situazione rispettando la normativa europea lo ha spiegato in un incontro tenutosi l’11 luglio 2021 presso il Giardino Botanico Alpino del Cansiglio Lorenzo Furlan, agronomo ed entomologo dell’unità dedicata alla ricerca agraria di Veneto Agricoltura.
“Un ecosistema – ha spiegato Furlan – più è complesso più è stabile, e pertanto la sottrazione da esso di una o più componenti ne compromette gli equilibri, e la drastica diminuzione di biomassa dell’entomofauna evidenziata da diversi lavori scientifici è un segnale di pericolosa semplificazione. Inoltre, tra le cause che provocano instabilità vi sono anche le pratiche agricole che impiegano fitofarmaci (come gli insetticidi sistemici), e la perdita di habitat dovuta alla continua sottrazione di suolo agricolo a causa della cementificazione del territorio.
Quindi, per fare buona agricoltura bisogna innanzitutto capire il proprio agroecosistema, in cui esiste un numero elevatissimo di organismi e microorganismi che interagiscono tra loro e hanno comportamenti determinati anche dallo specifico microclima, ma non basta: ogni tanto arriva qualche animale esotico, e poi c’è l’intorno che influenza molto… chiaramente l’agricoltore deve anche raggiungere un buon compromesso tra le proprie impostazioni teoriche e le richieste del mercato, ma sempre rispettando le regole, che ormai impongono a livello europeo di praticare la “difesa integrata”…
La società quindi influenza le scelte agricolturali, ma gli agricoltori a loro volta possono influenzare indirettamente la società con le loro scelte. Le specie entomologiche del terreno e quelle di superficie continuamente mutano per variabilità genetica, e in base alle diverse pratiche agronomiche adottate si creano equilibri sempre diversi, per cui sono richiesti modelli molto performanti per conoscere quali nuovi equilibri si affermeranno a distanza anche di soli dieci giorni. I modelli previsionali probabilistici devono essere continuamente “aggiustati” con sempre migliori conoscenze sulle leggi che governano le interazioni nell’ecosistema e con le osservazioni dirette sul campo, per tener conto anche della variabilità del clima. Non si può pertanto trascurare che l’agricoltore oltre alle conoscenze adeguate debba possedere grande spirito di sacrificio”…
Le moderne tecnologie orientate all’agricoltura consentono però di fornire i fattori produttivi (nutrienti, semi, acqua, …) in quantità sempre più vicine alle reali esigenze del complesso pianta-terreno del momento, con il minor impatto ambientale possibile, infatti l’impiego della tecnologia è sempre più auspicabile, sempre che, ovviamente, non si tratti di un utilizzo “all’americana”, determinato da un atteggiamento fideistico di stile statunitense, che invece si riscontra spesso, secondo cui ogni nuova scoperta tecnologica è buona, e va standardizzata (ovvero secondo modalità che sono l’esatto contrario dell’attenzione olistica all’ambiente).
“Un esempio del danno che l’impiego indiscriminato delle biotecnologie può comportare – ha rilevato il dottor Furlan – è stato quello conseguente alla messa a punto della soia resistente al glifosate. La continua applicazione della stessa tecnologia sulle piante che possono essere infestanti ha finito, inevitabilmente, col creare resistenze che ora si rivelano molto problematiche. La drastica diminuzione dell’entomofauna che ora si registra, è dovuta anche all’eccessivo (in gran parte tecnicamente ed economicamente ingiustificato) impiego di insetticidi sistemici, quali i neonicotinoidi, che, distribuiti nel terreno raggiungono l’acqua di falda, la quale arriva poi a zone non coltivate, e quindi può essere assorbita, con il suo contenuto letale, anche a grande distanza, da piante di cui poi gli insetti si alimentano. Le popolazioni di insetti di specie diverse appartengono invece alla naturale complessità dell’ecosistema, che ne garantisce la stabilità degli equilibri, e che determina spontaneamente anche una presenza decisamente inferiore di parassiti fitofagi.
Per contrastare l’attuale forte semplificazione della flora (con la conseguente perdita di entomofauna) si possono seminare ai bordi delle colture piante che fioriscano in periodi diversi dell’anno, anche a beneficio dell’apicoltura, e favorendo l’aumento di insetti per area coltivata. La diversità delle piante determina infatti la biodiversità degli insetti, ma le piante possono inoltre consentire l’ottimizzazione energetica conseguente alla loro combustione. Da studi scientifici francesi risulta che sia sufficiente la piantumazione di una cinquantina di pioppi per ettaro per ottenere un aumento della produzione di biomassa superiore del 40% rispetto al miglior sistema erbaceo, con la prospettiva nel lungo periodo di un significativo incremento del reddito. Si può poi provvedere a una rotazione ottimale dei seminativi per ottenere un proficuo aumento dell’entomofauna, per esempio alternando in ordine: frumento, mais e soia, con l’inserimento saltuario, a seconda delle esigenze, di trifoglio, girasole, erba medica e altre nuove colture (per esempio il Silphium) come si sta sperimentando nel nostro centro di Vallevecchia, in provincia di Venezia.
Gli agricoltori dovranno quantomeno rispettare le seguenti regole della Direttiva europea 128 del 2009, obbligatoria in tutti i paesi Cee dal gennaio del 2014:
I) – applicare eventuali fitofarmaci solo previo accertamento della necessità (accertamento livello popolazioni parassiti e loro confronto con soglie di danno) e scegliendo tra quelli meno impattanti per gli organismi utili, l’ambiente in generale e l’uomo: NON sono pertanto ammessi trattamenti profilattici;
II) – adottare tecniche di applicazione ad impatto inferiore rispetto a quello comportato dalle macchine tradizionali;
III) – sostituire, ove possibile, gli insetticidi chimici con alternative non chimiche.
La direttiva Cee 128/2009 sui fitofarmaci è quella maggiormente avanzata a livello internazionale: dalla mia esperienza personale posso senz’altro affermare che è paradossale che ciò che negli Stati Uniti d’America si insegnava negli anni ‘90 del secolo scorso, in Europa è ormai cultura agronomica acquisita a livello normativo, mentre negli Usa vi è un abuso di fitofarmaci (tra cui gli insetticidi come i neonicotinoidi) con trattamenti profilattici sulla grande maggioranza dei terreni tanto da avere casi limite come terreni divenuti ormai sterili tanto da non riuscire più a degradare nemmeno i residui colturali del mais.
Peccato però che, contestualmente alla sua promulgazione, la 128/2009 non sia stata affiancata da sperimentazioni applicate per avere per tutte le più importanti coppie coltura/parassita adeguati strumenti pratici di monitoraggio e le relative soglie di danno per valutare i rischi, e non siano stati contestualmente istituiti sistemi di controllo seri e indipendenti con relativi target da raggiungere con eventuali penali in caso di mancata applicazione delle regole.
In particolare, dal punto di vista tecnico, manca la pubblicazione delle soglie di danno al di sotto delle quali non vi è convenienza a utilizzare fitofarmaci; mancano indicazioni precise sui possibili metodi alternativi da adottare nei diversi casi; e sarebbero auspicabili finanziamenti per le “definizioni di sperimentazioni target” per ogni accoppiata coltura-malattia, con i relativi parametri di rischio.
Il nostro piano di azione nazionale ha recepito quindi la normativa europea, ma l’ha tenuta a livelli di impegno “leggeri” (come consentito dalla medesima).
Insomma, anche se è evidente che riuscendo a diminuire l’impiego di fitofarmaci senza significative perdite della produzione agricola il reddito dell’agricoltore aumenterebbe, il problema della mancata effettiva applicazione della normativa per la difesa integrata è di carattere culturale, asseconda di fatto la mentalità non troppo virtuosa secondo lo stile: introduciamo innovazioni migliorative senza disturbare troppo le vecchie abitudini… . È vero infatti che nell’allegato 3 della 128/2009 si possono leggere chiaramente tutti gli interventi di prevenzione che rendono stabile l’ecosistema, e si indica l’opportunità di avvalersi di esperti tecnici qualora il supporto diretto degli enti pubblici incaricati non sia sufficiente… ma a tutt’oggi gli esperti tecnici che entrano nelle aziende agricole disponibili sono prevalentemente quelli che agiscono per conto delle aziende produttrici di fitofarmaci…o altri fattori di produzione, palesemente in conflitto di interessi.
Infine, ma non come ultima cosa da segnalare in ordine di importanza, va rilevato che la possibilità di dotarsi di un’adeguata copertura assicurativa costituisce un’ottima protezione per chi invece intenda porre veramente in atto tutte le migliori metodiche raccomandate per la difesa integrata”.

Riccardo Panigada

Direttore responsabile:

Negli anni '80, mentre è ricercatore nel campo della bioingegneria, pone le basi per la teoria dell'Onfene (Manzotti-Tagliasco), e collabora a diverse testate tra cui «Il Sole 24 Ore», «Il Corriere Medico», «Brain», «Watt». È giornalista professionista, membro dell'Unione Giornalisti Italiani Scientifici (Ugis), e la sua originalità è quella di filtrare la divulgazione scientifica attraverso la riflessione epistemologica. E' inoltre docente di Filosofia e Scienze Umane nei licei.

Ha pubblicato: Il percorso dei sensi e la storia dell’arte (Swan, 2012); Le neuroscienze all'origine delle scienze umane (Cleup, 2016).

Attualmente sta lavorando a un nuovo saggio in tema di Psicologia cognitiva alla luce delle neuroscienze.

Dirige anche Tempo e Arte (tempoearte.it).